DECAMERON 2.0
Le storie che ci raccontiamo per continuare a vivere
Cosa è rimasto del Decameron di Giovanni Boccaccio e della brulicante nuova società da lui raccontata? Delle passioni, degli intrighi, delle perversioni e dissipazioni, delle morti e dei motti, dei grandi amori e delle miserie, dei nobili cuori e delle ciniche astuzie, delle ballate e delle bestemmie, delle preghiere e del letame? In questa terra un tempo incantevole, che è diventata globale, e che ha cambiato l’aspetto ma non lo spirito, sembra che in fondo tutto sia rimasto com’era; soltanto aggiornato alle sorti contemporanee, come un programma in upload.
Nel tempo del vagheggiamento boccacciano, scappando dalla realtà, si nutre lo spirito ed esplodono i sensi. Oggi, nel tempo del vagheggiamento espanso, alle soglie della fine del lavoro, della realtà abbiamo perso il controllo: ci sfugge, si nasconde, o sembra non doverci interessare.
Assuefatti ai morti quotidiani ed alle eterne giovinezze, si compete tutti contro tutti in una corsa virtuale oppressa dai miraggi del successo, abnegati ad una forma arbitraria di bellezza.
Finché vita, morte, amore, tempo e libertà poco importano più.
Sembra compiuto il viaggio di andata e ritorno: la concezione escatologica ed iniziatica del Boccaccio è una trappola che non eleva ma che ci riporta nel loop: ci raccontiamo quello che ci serve per andare avanti, e continuando a raccontare, costruiamo le nostre case fasulle, le nostre fragili dimore temporanee. Oggi i figli della peste, scampati alla morte, sopravvissuti all’ennesima crisi, consapevoli di aver perso la facoltà del libero arbitrio, sanno di aver di fronte un’unica scelta: cosa diventare o chi essere.
Il Decameron 2.0 va oltre la narrazione della struttura boccaccesca, la raccolta di novelle racchiusa dentro una cornice. La peste è la cruda realtà della nostra vita, della storia, la malattia dell’essere, del sopravvivere. In qualche forma è pure la morte del sacro, dell’anima. Non si combatte la peste, ci si sottrae nella dissimulazione: raccontando il desiderio, creando una narrazione parallela che non dice l’inenarrabile, ma ci parla di un rifugio mistificatorio. L’uomo cerca di realizzarsi in una dimensione di non realtà. Il territorio della realizzazione personale è un territorio virtuale, staccato dalle reali esigenze del singolo quanto della collettività: Il successo sociale come mistificazione, cercata o coatta, e la peste, come il fallimento, inenarrabile.
Il Decameron 2.0 supera questa impasse drammatica riscoprendo la dimensione poetica dell’opera di Boccaccio, quella che parla alle nostre coscienze.
Boccaccio scrive il Decamerone per le donne: sono loro che, nelle lunghe ore di ozio inflitte loro dal predominio maschile, sono inclini alle vaghezze e alle depressioni ed è per loro che Boccaccio scrive con un intento d’intrattenimento. Ripartiamo dall’aspetto passivo del femminile, dal desiderio dal rifiuto della realtà, dalle vaghezze, dalle indecisioni, dal vuoto della narrazione per ricominciare a nutrire lo spirito dell’uomo, per ricominciare a fidarci delle dimensioni non secolari e riuscire a fare emergere dall’interno di ciascuno una trama collettiva che rappresenti la possibilità di una narrazione collettiva, realistica e virtuosa, estatica e complessa, libera e liberatoria, creatrice di visioni e possibilità da cui ricostruire una comune epica contemporanea.
Il Decameron 2.0 è un vagheggiamento, un azzardo poetico che fa da specchio alla narrazione. Quella che Boccaccio racconta alle donne è una favola secolare dove il sacro si annida nelle miserie umane, dove il monstrum pervade e si genera nella nostra quotidianità. Niente magia, nessuna immaginazione, rari lieti fini, disincanto. Ripartiamo da quel sacro, come Giotto riparte dal colore del cielo per raccontarci che lo spirito si nutre con la vita.
Letizia Renzini
La struttura rigida del Decamerone è sciolta in una composizione nuova: le novelle e i suoi personaggi, alcuni degli intrecci, appaiono di volta in volta come accadimento scenico, immagini della memoria, o in forme trasposte, simboliche.
Il testo originale (in inglese), scritto da Theodora Delavault, è composto in gran parte in forma di libretto: è il cuore della nostra interpretazione, l’occhio extradiegetico, il ‘flusso di coscienza’ della narratrice contemporanea. Il confronto con la lingua boccaccesca è invece affidato alle attrici in video: Monica Piseddu e Monica Demuru.
Usiamo come sorgenti musicali dei materiali musicali filologici risalenti al secolo XIII (ballate, cacce, primi madrigali) questi materiali sono ‘ruminati’ e ricomposti nella scrittura musicale originale del compositore Yannis Kyriakides e del chitarrista Andy Moor, in scena nel live e parte integrante dello svolgimento drammaturgico. Protagonista di due arie importanti è la soprano belga Lore Binon, anch’essa in video. Interviste, personaggi video appaiono nella nostra scena quali conosciute presenze (Guido Cavalcanti, Federigo Degli Alberighi, Lisabetta da Messina, Cisti Fornaio), o trasposizioni contemporanee delle vicende inserite nel nuovo contesto multimediale.
La peste è anche il nostro punto di partenza, il baratro della coscienza contemporanea. L’orrore nel corpo. Nessun legame umano tiene più di fronte alla paura della morte. La miseria umana è messa a nudo.
Che cosa è il vagheggiare delle donne se non il prodotto della loro forza immaginifica? Fuori dalle griglie della narrazione verosimile, il materiale è suddiviso in un’iconografia ‘espansa’ che parte da immagini prerinascimentali (i codici miniati, gli affreschi, le pale) e le espande con nuove visioni e tecnologie: la live camera a sottolineare le presenze in scena, i video ‘social’ che commentano il racconto boccaccesco e trasfigurano la narrazione: il serbatoio della contemporaneità, lo stato delle cose.
La danza e il gesto, viatici poetici anch’essi, sublimano i significati e li accompagnano: i corpi dei 4 danzatori, così come i corpi letterari delle novelle, si lasciano e si ritrovano dentro e fuori a schemi pronti a deflagrare in personaggi, personificazioni, racconti: l’essenza del corpus espanso del Decamerone.